Lucia Coppola - attività politica e istituzionale | ||||||||
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Trento, 3 maggio 2012 La scorsa settimana il movimento «Se non ora, quando?» ha di nuovo fatto sentire la sua voce lanciando una petizione alla società civile, al Parlamento e al Consiglio dei Ministri, invitando l’Italia «a distinguersi per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla». Il breve testo stigmatizza come «dall’inizio del 2012 siano già 55 le donne morte per mano di un uomo. I nomi, le età, le città cambiano, non cambia il fatto che sono gli uomini più vicini a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio usato le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità. Sono bambine, ragazze, donne mature uccise nell’indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi, femminicidi. È necessario restituire tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà». Credo che non si possa, donne e uomini, restare indifferenti di fronte a questo appello, ma soprattutto di fronte alla portata di una violenza inammissibile in una società e in un paese che si definisce civile. Sono «donne che amano troppo» e «uomini che odiano le donne», (entrambi titoli di libri famosi) le vittime e i carnefici di questa storia tutta italiana che quotidianamente ci propone lo stillicidio di persecuzioni, torture fisiche e psicologiche, maltrattamenti, incapacità di reggere la fine di una storia o la semplice quotidianità di un rapporto. È una mancanza di rispetto diffusa, che pervade la cultura italiana, forse ancora ferma ai tempi del delitto d’onore, che rimaneva impunito, alla violenza sessuale, che non era un reato. È un sentimento di superiorità, quello maschile, che attraversa classi sociali e generazionali, e consente di intervenire da padroni sulle anime e sui corpi straziati di tante donne: oggetti senza valore, prima del desiderio e poi della sopraffazione. Proprietà che una volta acquisite lo sono per sempre, di cui è lecito disporre e poi magari disfarsene, come la macchina da rottamare quando non risponde più a propri bisogni. E quante volte ci capita di sentire le difese di questi ignobili esseri umani, di questi assassini, giustificare i crimini affermando che le donne «se la sono cercata»: donne ribelli, traditrici, pigre, svogliate, dimesse, provocanti, inaffidabili, ribelli, troppo colte, troppo ignoranti. Donne che non meritano di vivere. Per non parlare della pubblicità che continua a proporre l’immagine stereotipata della donna santa o passionale (per usare una metafora): brave mamme di famiglia alle prese con pannolini, biscotti e lavatrici e donne «facili». Mi è capitato, in una discussione tenutasi in Consiglio Comunale a Trento sulla pubblicità che svilisce le donne, di citare uno spot di pannelli fotovoltaici che mostra una ragazza accovacciata, in tanga e tacchi a spillo, con la scritta: «Montami a costo zero». O lo slogan di una marca di mozzarelle, donna discinta naturalmente, che dice: «fantastica all’etto». Il Censis registra che in televisione il 53% delle donne non ha voce, il 43% è associato a temi come moda, bellezza, spettacolo e solo il 2% parla di questioni professionali o politiche. Ma tutta la cultura italiana è arroccata a luoghi comuni umilianti per la dignità femminile, più di quasi tutte le culture europee. Lo dice l’Onu. La scuola è la grande assente nella proposizione ai bambini e ai giovani delle tematiche di genere, che devono partire presto, già nella scuola dell’infanzia, nell’informazione, nell’educazione alla sessualità, al rispetto, alla diversità, all’affettività. Per contro, il sessismo e la riproposizione di modelli culturali arcaici, sia per i ragazzi che per le ragazze, la fanno ancora da padrone e sono destinati, nel tempo, a produrre i danni che sono sotto gli occhi di tutti. Auto svalutazione per le donne, acquiescenza, necessità di attenersi all’immagine dominante per essere accettate, arretramento culturale, passività ed eccessiva arrendevolezza. E per gli uomini senso di superiorità, violenza, sopraffazione. Anche le famiglie hanno la loro responsabilità, naturalmente. Il nostro paese è arrivato al punto di dover coniare un nuovo termine, femminicidio, per nominare un fenomeno che non ha l’eguale in nessun paese civile. Un neologismo che racchiude in sé una carica di dolore così grande, la sconfitta della ragione, il prevalere dell’odio sull’amore, da far male al cuore. Che ci parla della perdita di vite umane preziose e della tristezza senza fine di coloro che le piangono. L’Onu ha stigmatizzato l’arretratezza del nostro paese per quanto attiene la discriminazione sulle donne, in riferimento al documento che l’Italia ratificò nel 1985. L’Italia è molto indietro anche in materia di lavoro e nella crisi si stanno perdendo ulteriormente i diritti. Il 48,9% delle donne non ha lavoro, né previdenza, né diritti al Welfare. E il problema della povertà femminile si fa sempre più serio: sono 1 milione 678 mila le madri indigenti. Tempi duri per le donne, per quelle vive e per quelle a cui non è dato modo di continuare a stare in questo mondo, bello o brutto che sia. Lucia Coppola
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LUCIA COPPOLA |
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